364. Energia

Non era cambiato molto dai tempi della scuola, quando i compagni fingevano di toccarle il seno per sbaglio, colpa della sua abbondanza, si diceva per giustificarli, eppure aveva solo una quarta scarsa.
“Non fa niente” era la bugia dietro cui nascondeva la sua paura di esistere, di rivendicare il suo spazio nel mondo. L’aveva detta così spesso che ormai era diventata la sua dimora preziosa. “Io non mi offendo mai, sono fatta così!” e un sorriso rassicurava gli altri.
Il mondo sembrava essere in grado di cambiare, intorno a Virginia, i movimenti internazionali, la solidarietà di genere, erano dappertutto, nelle pubblicità gli uomini facevano il bucato e le donne pilotavano gli aerei, una narrazione ben lontana da quella in cui era cresciuta. Se ne compiaceva, per le generazioni future, pur realizzando che nel suo quotidiano le cose non erano poi così diverse.
Alcune faccende le venivano affidate solo perchè era una donna, così all’università e anche ora in ufficio. La sua competenza nel fare e portare il caffè non era mai messa in discussione. “Sì, ma io ho studiato marketing!” pensava, una lamentela che restava nella sua testa.
Lo sconcerto fu indicibile quando, alla fine dello stage, l’azienda decise di assumere il suo collega maschio, che aveva dato prova di proattività e creatività, mentre lei era stata “troppo silenziosa” le dissero. “Non era facile partecipare alle riunioni dalla stanza del caffè!” avrebbe voluto ribattere, ma lo tenne per sé, dentro quel cassetto mentale che raccoglieva tutti i suoi pensieri più autentici.
Quando le proposero di restare come segretaria del neoassunto, il colpo fu terribile, ma accettò perché era da ingrati rifiutare.
Questa era la sua situazione quando accadde il fatto, niente di più della valanga di schifezze che subiva ogni giorno sul tram, in ascensore, in sala mensa. Successe che, mentre portava il vassoio con i caffè nell’ufficio del suo nuovo capo, lui apriva la porta per uscire e la investiva in pieno. I caffè volarono per finire addosso a entrambi. Ci fu uno scambio di “Mi dispiace”, alcuni sinceri, altri estorti a forza dagli sguardi dell’intero ufficio, e poi una risatina nervosa e l’inevitabile spostamento nei bagni comuni. Virginia aveva un cambio, perché era davvero una persona previdente e organizzata, così si era infilata in uno dei bagni liberi mentre lui lavorava di acqua fredda e fazzoletti sulla cravatta. Vedendola entrare con una camicia pulita, le aveva detto “Vuoi una mano?” e aveva ammiccato. Poi subito era tornato a imprecare contro la macchia e dopo qualche minuto aveva lasciato perdere e se ne era andato. Lei era rimasta chiusa nel bagno, seduta sul water a stringersi la camicia fradicia con entrambe le mani, senza accorgersi immediatamente che era bagnata delle sue lacrime. Aveva aspettato che tutti i bagni si fossero liberati, prima di uscire, chiudere a chiave l’antibagno e sentirsi finalmente libera di spogliarsi in sicurezza. Era tornata in ufficio e aveva ripreso a lavorare, fino a quando lui le aveva urlato “Allora, quei caffè?”.
Aveva afferrato la borsa e fatto per alzarsi ma sotto lo sguardo interrogativo della vicina di scrivania aveva sorriso nervosamente, si era rimessa a sedere e si era rifugiata nell’ennesima bugia: “Tutto a posto”.
Uscì per ultima dall’ufficio. In ascensore lasciò che le lacrime scorressero lungo le guance, mentre fissava i numeri dei piani, pronta ad asciugare via ogni traccia prima di arrivare al piano terra.
Arrivata a casa si mise a letto e si addormentò.

Quando si svegliò era buio, era già domani? Toccò il telefono sul comodino per sapere l’ora, la luce dello schermo la illuminò costringendola a voltare lo sguardo e strofinarsi gli occhi. Tornò a guardare: nessun numero o app o messaggio in attesa, sembrava una tavoletta di luce. Lo esaminò, spense e riaccese lo schermo: niente. Lo appoggiò spento sul comodino e restò a fissarlo per qualche minuto. Il telefono si attivò all’improvviso spandendo una luce prima soffice e bianca, poi di un rosa pallido, che divenne rossa e infine tornò bianca raggiungendo la potenza massima. Le mensole sopra il letto di Virginia ora erano illuminate e svelavano la presenza di una donna seduta che la fissava con occhi feroci. Eppure, sorrideva.
Virginia non riuscì a urlare, né a muoversi. “Deve essere un sogno” pensò, “Sto ancora dormendo”. Guardò la donna mentre gli occhi si abituavano alla nuova luce: le assomigliava molto, tranne che per lo sguardo.

«Chi sei?» chiese sussurrando.
«Guardami bene, non mi riconosci?»
Scosse la testa, terrorizzata.
«Non ti riconosci?»
«No!» disse Virginia coprendosi la bocca. Il pensiero, che aveva già nascosto nel solito cassetto, bussava per uscire.
«È così, Virginia, mi hai creata tu, insieme a tutte le donne che sono esistite dalla notte dei tempi. Ho avuto tanti nomi: strega, demone, femminista, puttana del diavolo, megera, isterica, abominio, anticonformista, troia. Non mi toccano. Io sono pura energia.»
«Energia benefica, o…?»
«Lo sai.» la donna la guardò e rise forte.
Virginia continuava a scuotere la testa, era un sogno terribile, doveva svegliarsi. Con uno sforzo riuscì a mettere le gambe fuori dal letto e provò ad alzarsi. L’altra donna balzò ai suoi piedi, atterrando come un gatto. Ora i loro volti erano vicinissimi, Virginia avrebbe potuto dire di essere davanti a uno specchio, non fosse stato per quegli occhi, quegli occhi decisi. La donna si raddrizzò e prese a camminare nella stanza, spostandosi tra luce e ombra.
«La conosci quella sensazione, non è vero?» le diceva passeggiando con le mani dietro la schiena «Quel misto di delusione, amarezza, paura, desiderio di vendetta, bisogno di giustizia, voglia di fare del male e di scappare, ogni volta che vieni picchiata, umiliata, spaventata, solo perché ti è capitato di nascere donna. Quando vi sentite violate, ostacolate, respinte, calpestate in quanto donne, la mia forza vitale cresce.»
Virginia aveva capito, ma non poteva ammetterlo. Avrebbe significato riconoscere che per tutta la vita era stata una vittima, che non si era mai amata abbastanza da difendersi, non era degna di ricevere aiuto né rispetto, troppo tardi per cambiare, tanto lei non si offendeva mai.
«Perché sei uguale a me? Che c’entro io?”» urlò finalmente tra le lacrime, schiava della sua stessa bugia.
«Tu convogli l’energia. Io ho potuto sentire in te, tutte le volte, la voglia che avevi di far rotolare la testa di qualcuno. Ti sei accorta di tutto e non hai fatto niente. Sei una bomba, da te prendo gran parte della mia energia.»
Si fermò al centro del cono di luce e sfoderò una lunga e sottile spada da dietro la schiena. L’accarezzò con le dita lungo la lama. Virginia capì che era sporca di sangue e ora lo erano anche le sue mani.

La mattina successiva non ricordava altro dopo il sangue, confermò a se stessa che il brutto sogno era giustificato dal sonno eccessivo. Si preparò per andare al lavoro, decise che avrebbe indossato un maglione sopra la camicia, si avviò in ufficio.
Al suo arrivo, i pochi colleghi presenti erano in piedi, si abbracciavano e piangevano. Virginia si avvicinò.
«Non hai saputo? Luigi è morto, poverino. E in che modo! Atroce! Terribile!»
«Lo hanno assassinato.»
«Gli hanno tagliato la testa.».



Lascia un commento

About Me

Siciliana, scrittrice e creatrice di storie. Nella sua vita è stata (in ordine sparso): copywriter, social media manager, project manager, collaboratrice scolastica, fotografa, artigiana, brand manager, web editor, content creator, insegnante. Attualmente collabora con Shining Bees, dove si occupa di raccontare storie e fornire idee.

Sogna un mondo in cui le persone amino i lunedì, settembre e le verdure al vapore. Gattara, ama leggere, fare l’uncinetto e camminare. Odia le etichette, i posti affollati e scrivere biografie. Citazione preferita: “Delle proprie opere non bisognerebbe dir nulla. Lasciar parlare esse, e basta.” Italo Calvino, presentazione per I racconti.