359. Frammento: Mozambico

La storia che andrete a leggere è il risultato di un lungo lavoro di ricerca, indagine e scrittura operata dal narratore e dai suoi collaboratori della casa editrice.

Tali persone siamo io e Miriam e questa è la nostra prima pubblicazione.

Le registrazioni si è deciso di non edulcorarle, per amore della verità, perché solo quando non ci guardiamo siamo veramente autentici ed è questo che mi ha salvato. Alcune digressioni al lettore sembreranno inutilmente intime e personali, vi chiedo di avere fiducia e proseguire, ché solo mischiando la luce col buio è possibile vedere le sfumature.

Mi chiamo Mozambico e non sono morto, anche se mi hanno accoltellato. Me lo meritavo, sì, qualora ve lo chiedeste. Pensandoci, effettivamente, l’avevo portata lì per spaventarla, mai avrei pensato che lei prendesse l’iniziativa e questo mostra come io sia in ultima analisi un ingenuo, sebbene con cattive intenzioni. Ma solo intenzioni eh! Azioni, mai! Miriam direbbe maschilista, piuttosto. Solo perché è una ragazza hai pensato di poterla portare in una stanza piena di coltelli senza che per te ci fosse pericolo! La sento ancora urlare in lacrime al mio orecchio squarciato. Ah il dolce balsamo della sua disperazione sul mio ego ferito! Ma questa è la fine della storia e non voglio certo sovvertire le regole io che mi sperimento alla scrittura per la prima volta. Non dico che io sia nuovo in tale mondo. Tutti conoscete i fatti di cronaca che mi hanno portato a voler raccontare la mia storia da un letto d’ospedale. Qualcuno sostiene che io non abbia concesso interviste perché voglio lucrare sulla mia esperienza attraverso questo scritto, che stia ricadendo nel medesimo errore

che mi ha portato ad avere uno squarcio sul volto e cicatrici sparse.

Vi mostrerò come io fossi solo l’altra metà del torto, se così si può dire.

La mia professoressa di italiano delle medie mi disse che avrei dovuto fare lo scrittore, visto che ero bravissimo a raccontare storie. Erano balle per la maggior parte. Le dissi che con le bugie ero bravissimo non solo a raccontarle ma anche, e principalmente, a riconoscerle. Mi è subito chiaro quando una storia è davvero autentica. Vi racconterò di come questo superpotere mi ha quasi condotto alla morte (come tutti i superpoteri).

Non sono qui per dire che mi pento di quello che ho fatto, né per dimostrare, attraverso una lunga disamina dei fatti, che le mie azioni sono state una naturale reazione alle condizioni della mia vita. Avrei potuto fare scelte più ragionate, sarebbe bastato provare a essere migliore, avrei potuto lasciare più spazio a me stesso, alle mie inclinazioni, inseguire i miei sogni, e non quelli di mio padre confondendoli con i desideri del momento, se non mi fossi infranto nelle cose della vita. 

No, è sbagliato. L’ho voluto io. Ho preferito non raccogliere i pezzi, lasciarli sparsi, donare un frammento di me a ogni passante che si è trovato a costeggiare la zona del mio schianto. Miriam, Filippo, il presidente, Luisa, Il Gianfry, e quella pazza schizofrenica che mi ha accoltellato, sì, metto anche lei nel gruppo, e lo ammetto: avrei potuto ambire a più alte soddisfazioni, invece di inseguire solo i risultati immediati. Farcela era la cosa più importante, ottenere un posto sul podio delle vendite ogni anno, dimostrare, senza lasciare spazio al minimo dubbio, di essere intelligente. Non sono bravo a scrivere, o almeno mi sono sempre rappresentato così, ma riconoscere chi lo è, questa sì è la mia specialità. Un talento per i talenti. Li andavo a cercare nelle osterie, nei bar, sicuro di scovare il nuovo Prévert, la futura erede di Hemingway, la versione siciliana di Marquez. Iniziai il tirocinio dopo la laurea in lettere in una piccola, minuscola, quasi inesistente casa editrice universitaria. Si chiamava Mozambico Edizioni. Solo manuali e saggistica, che noia! Mi occupavo di correggere bozze, ortografia e sintassi. Nel frattempo frequentavo vecchi poeti falliti, cantautori volgari in volgare, streghe redivive, romanzieri della domenica con molto da dire ma nessuna capacità di farlo. Da tutti loro volevo ottenere il massimo, fiutando al primo sguardo le possibilità infinite di quelle menti divergenti, così li pedinavo, li accoppiavo puntando a collaborazioni esplosive, infondevo loro sogni di grandiosità e successo solo perché credevo veramente al valore delle loro storie, alla necessità di raccontarle che ha creato la più bella letteratura del mondo. Li stancavo finchè non mi concedevano un manoscritto. In realtà vedo ora, dopo tutto ciò che è accaduto, che ho sempre messo in atto un piano preciso, con il fine infimo di appropriarmi delle vite degli altri. Una volta ottenute le pagine mi fiondavo a proporle alla casa editrice, mai sazio dei rifiuti categorici. Tornare dai miei sventurati, divenuti profughi della speranza, era un dolore indicibile. Li avevo cercati nell’oscurità, promettendo luce e stelle, per negargliele poi alla resa dei conti. Fu in questo girovagare notturno tra sfollati che incontrai Filippo, il mio unico caso irrisolto felice di esserlo. Filippo merita un capitolo a parte, qui dirò solo che fu lui a suggerirmi l’idea di proporre i manoscritti ad altre case editrici o, al massimo, di fondarne una io. Fu illuminante. Scrissi a più di duecento case editrici in tutta Italia, inviando loro i diversi manoscritti che avevo racconto. Lo feci per un anno intero. Solo una rispose, una piccola società dedita alle pubblicazioni sperimentali. Mi chiedevano di lavorare per loro, volevano pagarmi per fare quello che amavo: scovare delle ottime storie da pubblicare. Quando conobbi il presidente della società capii che era interessato solo agli incassi, parlava di nicchia di mercato, valore della rarità, penetrazione orizzontale e verticale, ma era chiaro che non aveva mai fatto un viaggio dentro a un romanzo. Era la personificazione dei manuali e dei saggi ai quali cercavo disperatamente di sfuggire. Accettai, credendo di essere l’anello di congiunzione ideale tra l’aridità dei dati statistici e il calore della buona letteratura, e anche perchè mi offrivano il primo stipendio vero della mia vita. Col tempo, pensavo, riuscirò a convincerli a darmi una collana di nuove pubblicazioni. Ero pieno degli stessi sogni che coltivavo negli altri, andavo incontro alle stesse delusioni.

Pochi mesi dopo la mia assunzione il vecchio, preparatissimo presidente lasciò il posto al figlio, uomo rude e di facile inclinazione all’ira. Fu lui a chiamarmi Mozambico, leggendo il mio curriculum , forse il primo che prendesse in mano nella sua vita. Non volli correggerlo, pregustando già la figura che avrebbe fatto con i colleghi. Peccato che fossi rimasto da solo. Aveva licenziato tutti, la società era in rosso, aveva tenuto solo la sua segretaria Luisa e me, la prima perché era abbondante di seno, e io perché ero giovane e portavo con me, a mia insaputa, sgravi fiscali prelibati. Se il padre era un professionista nel campo degli affari ma ignorante in campo umanistico, il presidente figlio sembrava non aver nemmeno imparato a leggere. Tutte le cose che diceva le sputava fuori urlando, ma quella che preferiva era il mio nome, che da allora divenne per tutti:

«Mozambico!»



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About Me

Siciliana, scrittrice e creatrice di storie. Nella sua vita è stata (in ordine sparso): copywriter, social media manager, project manager, collaboratrice scolastica, fotografa, artigiana, brand manager, web editor, content creator, insegnante. Attualmente collabora con Shining Bees, dove si occupa di raccontare storie e fornire idee.

Sogna un mondo in cui le persone amino i lunedì, settembre e le verdure al vapore. Gattara, ama leggere, fare l’uncinetto e camminare. Odia le etichette, i posti affollati e scrivere biografie. Citazione preferita: “Delle proprie opere non bisognerebbe dir nulla. Lasciar parlare esse, e basta.” Italo Calvino, presentazione per I racconti.