356. I gatti di quartiere

Due anni fa circa abbiamo iniziato a dare i nostri avanzi ai gatti del quartiere. Li avevamo sentiti miagolarsi l’amore di notte, dal lato del garage. Più che corteggiamenti sembravano delle infinite riunioni di condominio in cui a un certo punto, senza motivo apparente, uno degli intervenuti produceva un fortissimo miao prolungato e acuto, quasi un saluto alla vita (abbiamo scoperto poi che proveniva dal gatto maschio, il quale non stava subendo alcuna minaccia, voleva solo disperatamente accoppiarsi!).

Avevamo anche avuto una brutta esperienza con un topo nell’auto che aveva richiesto settimane di lavaggi approfonditi e volevamo che i gatti trascorressero più tempo davanti alla nostra porta. Così una sera ci siamo affacciati al balcone con qualche striscia di grasso di prosciutto e abbiamo chiamato i gatti con quel verso sbaciucchioso che tutti conosciamo.

I gatti erano tre: uno tricolore, nero, bianco e marrone, gli altri due di un rosso sbiadito. A quei tempi stavamo guardando per la terza volta Breaking Bad, così, per giocare e per distinguerli, abbiamo assegnato dei nomi ai gatti: la multicolor era Skyler, i due gatti rosa Jesse Pinkcat, entrambi. Uno dei due gatti rosa sembrava disturbato: afferrava il cibo e correva chissà dove. Lo fa ancora, quelle rare volte che si fa vedere. L’altro era più docile, aveva un bel pancino bianco, invisibile col buio della notte. 

Nei giorni successivi solo Skyler e Jesse la docile accolsero la nostra offerta di cibo, la accettarono e ricambiarono: una mattina ci svegliammo con una coda di topo e una carcassa di ossa e piume davanti alla porta del garage. È il modo che hanno i gatti di dire “Grazie, lascia che offra io adesso”. Abbiamo spazzato via quei resti senza rimproverarle. È così che bisogna fare se si vuole che continuino a cacciare. Un altro giorno, esattamente sotto al nostro balcone, c’era un gatto morto mai visto prima. Sembrava dormisse, se non fosse stato per la quantità di schizzi di sangue che lo circondavano sull’asfalto. Ho sentito il vicino di casa incolpare noi per il fatto di dare loro da mangiare. 

Quello fu il periodo in cui arrivò il terzo gattone, un maschio grosso e grigio che chiamammo Walter Black&White. Fedele al personaggio che gli prestava il nome, Walter era affabile all’inizio, si lasciava addirittura accarezzare, cosa che mi rendeva felice e appagata. 

Avevo provato più volte, durante quell’estate che passai in garage a rifugiarmi dal caldo, a entrare in contatto con Jesse, la più curiosa dei tre. Lasciavo la porta aperta e aspettavo nell’altra stanza che lei entrasse. Si guardava intorno prima incerta, poi più coraggiosa, io fingevo di ignorarla; appena poggiava la zampetta su un cartone subito le veniva una gran voglia di affondarci le unghie e grattava, grattava per poi lasciar perdere all’improvviso, attirata da un vecchio tappetino da auto. Adorava sdraiarcisi sopra. Arrivava persino ad appallottolarsi al centro del garage per dormire, ma quando mi avvicinavo per accarezzarla, saltava via.

Quando ci provai con Walter e lui si avvicinò inarcandosi e sollevando la coda (segno che sì, ti è concesso toccarlo) io gli passai la mano sulla faccia e lungo la schiena, Jesse, che era più lontana di un passo, miagolò forte guardandolo, come a dire “Cosa ti stai facendo fare, è pericoloso!”, ma io e Walter continuavamo nella nostra neonata amicizia, e lei, non potendone più, si andò a strofinare su Skyler, che ci ignorava più in là. Stava morendo dalla voglia di farsi accarezzare ma aveva troppa paura.

Non passò molto prima che il tempo del calore tornasse per loro, e quindi ancora riunioni di condominio e urla nella notte. Walter si vedeva una volta su Jesse, un’altra su Skyler, si era creato un harem personale fatto di femmine da ingravidare, croccantini e coccole da tutto il quartiere. Dopo un mesetto circa le gattine erano incinte. Delle due, Skyler sembrava fatta per partorire, Jesse invece era più sofferente e non avrà avuto più di un cucciolo. Walter difendeva il territorio dagli altri maschi, spruzzando la sua pipì acida sulla nostra porta a tre ante del garage. Il lezzo insopportabile saliva fino al balcone. Era arrivato il momento di allontanare Walter. Niente più cibo e carezze per lui (e per me). Non è stato un problema, con quella faccia tosta era il beniamino di tutto il quartiere, le femmine erano già gravide, non aveva un particolare interesse per noi. 

In autunno io avevo ripreso a guidare, andavo e tornavo da lavoro circondata dalle mie gattine, che mi spettavano alle 7.30 e alle 14.30 per il nostro scambio quotidiano di croccantini (per loro) e coccole negate (per me), ma mi andava bene. Non c’era più l’ombra di un topo, le trappole restavano vuote, il mio cuore si riempiva.

Un giorno Jesse non c’era. Non mi preoccupai. Qui siamo in molte ad amare i gatti, starà facendo colazione altrove. Non c’era nemmeno al ritorno. Non ci fu più per settimane. Non negavo a me stessa che Jesse era la mia gatta preferita, forse il fatto che mi respingesse senza abbandonarmi mai totalmente, mi aveva anche ispirato un personaggio centrale di un romanzo fantasy che stavo strutturando, non mi sembra esagerato dire che le volevo bene.

Poco prima di Natale, tornando a casa dal lavoro, la vidi vicino all’ingresso del nostro vicino, le gambe sdraiate, la testa sollevata. Frenai e scesi dalla macchina abbandonandola in mezzo alla strada, non volevo rischiare che scappasse vedendomi avvicinare troppo. Lei mi guardava e miagolava, sembrava affamata. Non aveva paura di me, mi chiedeva aiuto. Parcheggiai e le riempii la ciotola dell’acqua. Jesse si trascinò letteralmente verso di me, non muoveva più le gambe posteriori, sembrava un gatto-sirena fuori dall’acqua. Per non farla stancare le avvicinai il cibo  fin dove poteva arrivare, davanti alla porta del vicino e pazienza se si fosse lamentato.

Da quel giorno trovavo Jesse sul marciapiede, mezza sdraiata, tutte le mattine, le davo da mangiare, principalmente carne, e lei si lasciava avvicinare. Non provai ad accarezzarla, non volevo si facesse male nel cercare di sfuggirmi, non volevo approfittare della sua debolezza. Skyler le stava sempre vicino, Salvo sostiene che, nel periodo di assenza, le abbia portato da mangiare nel suo nascondiglio. Non lo escludo, si scambiano spesso il cibo, ancora oggi capita che Skyler rubi il pezzo di carne sotto ai baffi di Jesse e per tutta risposta lei le dia una leccata o una strofinata di testa. È evidente che queste due gatte sono una famiglia ora.

Del cucciolo di Jesse non so nulla. Forse ha avuto un parto complicato, forse è stata investita o attaccata da un altro animale. Fatto sta che, da quando l’ho vista trascinarsi verso di me, spezzandomi il cuore, Jesse non lascia più questa casa. Ora si è ripresa al cento per cento, durante il periodo dell’accoppiamento diversi gatti provano ad accalappiarla ma lei non ne vuole più sapere. Noi la aiutiamo cacciandoli via, quando siamo in casa, per il resto del tempo deve cavarsela da sola. Prende i croccantini dalla mie mani, ormai, ma carezze no, e io me lo faccio andare bene. Abbiamo anche avuto un’invasione di topolini, quest’inverno, ho cambiato almeno una volta ogni trappola della casa, ma continuiamo a dar loro da mangiare, anzi abbiamo comprato le crocchette perché alcuni avanzi non sono di loro gradimento.

Quando sento il rumore della Panda da lontano e so che Salvo sta per arrivare, mi affaccio al balcone. La prima cosa che vedo è Jesse che corre e si ferma sotto di me, seguita dalla Panda. Anche per lei quel rumore vuol dire casa.



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About Me

Siciliana, scrittrice e creatrice di storie. Nella sua vita è stata (in ordine sparso): copywriter, social media manager, project manager, collaboratrice scolastica, fotografa, artigiana, brand manager, web editor, content creator, insegnante. Attualmente collabora con Shining Bees, dove si occupa di raccontare storie e fornire idee.

Sogna un mondo in cui le persone amino i lunedì, settembre e le verdure al vapore. Gattara, ama leggere, fare l’uncinetto e camminare. Odia le etichette, i posti affollati e scrivere biografie. Citazione preferita: “Delle proprie opere non bisognerebbe dir nulla. Lasciar parlare esse, e basta.” Italo Calvino, presentazione per I racconti.