La prima volta che sentii mio padre piangere fu quando mi confessò la sua malattia.
Era il giorno di capodanno, io vivevo al nord ed ero avviata a una prestigiosa carriera in una grande azienda. Ci stavamo scambiando gli odiati, consueti auguri al telefono. Non tornavo mai in Sicilia per le feste, la mia scusa era il prezzo del biglietto. Solo una volta lui mi aveva detto “Te lo pago io”. Avevo rifiutato, non aveva insistito.
Tornavo solo d’estate ma una volta saltai l’appuntamento e non li vidi per un anno intero. Quando dissi alla mia collega che non vedevo mia madre da dodici mesi si mise a piangere. La mia collega, non mia madre.
Mi ero laureata da sola, in quel nord pieno di nebbia che era il mio rifugio e la mia strategia per stanare la loro vita interiore.
Nessun risultato se non un,infinita solitudine.
Trenta giorni dopo quella telefonata, mio padre morì mentre io ero sull’aereo per Catania. Un biglietto, l’ultimo disponibile, comprato la mattina stessa. Mi costò caro.
L’anno dopo lasciai il mio grandioso lavoro perché non era il mio sogno. Mi resi conto che avevo girato l’Italia solo per dimostrargli che potevo farlo, anche se ero femmina. Per sbattergli in faccia che no, non sarei finita a fare la serva di un altro uomo, come lui aveva sempre sostenuto attraverso gesti, urla, frasi sarcastiche, sguardi feroci.
Me ne ero andata a diciannove anni, ma lui non mi aveva mai inseguita, se non in quella telefonata in cui rivelava tutta la sua paura.
Dopo la sua morte, mi resi conto che questa paura l’aveva sempre avuta, che non era stato educato ad accettare il cambiamento e che, forse, era malato di troppo amore.
E io, che avevo trascorso la vita a confutare tutte le sue tesi impilando successi scolastici, viaggi all’estero senza permesso, amici neri, gay e fidanzati disoccupati, dopo non seppi più chi ero.
Ero libera di fare e di essere quello che volevo, ma quello che volevo era la nostra estenuante battaglia senza fine.
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