La Sicilia ti partorisce e il travaglio tocca a te. Devi camminare in fretta, tra l’erba alta, lanciare lo sguardo oltre il mare e desiderare di arrivarci. Le sbatti la porta in faccia, perché non ti capisce. Vuoi essere tutto quello che lei non è. Devi allontanarti, tanto. Strappare il cordone, ti rallenterebbe.
Devi vivere ogni giorno partendo da zero. Costruire chi sei, cosa vuoi e cosa farai quando l’avrai ottenuto. Avere una stanza, nella tua casa in affitto, per nascondere gli strascichi, le punte spezzate delle radici che raccogli. Il terreno non è abbastanza fertile. Te lo ha insegnato lei, come si fa. La tua casa sei tu. È lì che hai trovato rifugio. Plani sulla cima innevata e rossa del vulcano. Come fa il caldo a resistere al freddo?
Devi seppellire le tue fondamenta. Le hai lasciate esposte, sei un’opera incompiuta. È colpa tua se non impari, la lezione era chiara, lei sa come fare.
Sei lì, sola. Sei l’isola. Vuoi solo tornare da lei, abbracciarla, dirle “Scusami, lo dovevo a me stessa. Starò con te fino alla fine.” Lei, con una mano sul bastone, l’altra sul tuo viso, il volto rugoso e bianco, si rialza, bedda fimmina di una volta, e ti dice “Figghia, io ci sarò anche dopo di te.”
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