La mia specialità erano le borse. Le prelevavo, prendevo i soldi e rivendevo il resto a Tony. Non so cosa ci facesse. Mi intrattenevo con lui solo il tempo di qualche chiacchiera mentre i suoi portavano via la merce e tornavano con i miei soldi. A Tony piacevano i racconti dei miei prelievi. Come quando, nei bagni della stazione, convincevo donne cariche di zaini, borse e valigette ad affidare tutto a me per il tempo di una pipì. Un giorno Tony mi fa “Sei brava a inventare storie. Posso farti entrare in un nuovo business.” Così mi parlò di questi pacchetti di indirizzi email. Avrei dovuto contattare gente a caso e indurla a condividere i propri dati bancari.
Ero stanca, era inverno, così accettai.
Il primo obiettivo furono donne tra i venticinque e i quarantacinque anni. Ripescai dalla memoria una conversazione che avevo spiato una volta. A quella donna non rubai la borsa, mi prendevo la sua storia. Così mi finsi la fondatrice di un’associazione no profit che finanziava progetti di ricerca per la cura alternativa dell’Alzheimer. Scrissi di come l’Alzheimer aveva trasformato mia madre, la mia glaciale, anaffettiva madre, in una persona diversa, piena di vita e gesti affettuosi. Insistetti molto sullo strazio di doverla curare in modo tradizionale, annullandone la ritrovata spinta vitale. La malattia mi aveva consegnato la madre che avevo sempre saputo di meritare, ma dovevo rinunciarci. Infine chiedevo donazioni e pregavo di far girare il mio appello
Nessuno rispose tranne una donna. Mi scrisse che era consapevole si trattasse di una truffa, che la mia storia le aveva consegnato un’emozione antica e che questa emozione era vera, anche se tutto il resto era falso. In fondo, come una firma, aveva messo i dati della sua carta di credito, che girai a Tony come da accordi.
Ne ricavai solo qualche spicciolo. Era come se fossi stata pagata per aver inventato una bella storia. Che strana la gente, pensai.
Finito l’inverno tornai alle borse. Era meno rischioso.
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