Il sud è ciò che mi caratterizza, per amore o per disprezzo. La mia risorsa e la mia fame. La lancia che può unicamente infliggere e guarire la mia ferita. Nascere a Sud significa chiedersi continuamente cosa c’è al di sopra.
La stella polare, luce salvifica nella notte, indica il nord, la soluzione, la chimera da inseguire per andare avanti. Nessun marinaio organizza la sua rotta se non in riferimento al nord, anche quando va nella direzione opposta, contraria. Il sud sembra spesso indicare, nel nostro mondo, la scelta sbagliata.
Io preferisco dire, adesso, la via alternativa.
Nel mio caso, però, l’alternativa doveva necessariamente essere il nord, dato che sono nata in una cittadina che sta in fondo, quasi alla fine di tutto. Più a sud di me c’erano solo altri sud ancora più piccoli. Oppure l’Africa.
Sono passata dal viale della mia cittadina lungo il quale tutta la mia generazione ha avuto la propria educazione sentimentale. Questo viale non è mai stato chiamato con il suo vero nome. All’anagrafe viale Corrado Santuccio, nelle storie di tutti Viale Lido, o semplicemente Lido.
È una via di poco più di un chilometro che parte dall’antico ingresso alla città, “le porte”, e finisce nel mare, dividendo a metà le due zone di spiagge libere. Sono nate, in mia assenza, una serie indefinita di case di riposo per anziani dai nomi volutamente tristi come Paradiso del riposo, La quiete, La fine di tutto. Sembra quasi che il viale voglia dirmi che, mentre ero via, qui il tempo è andato al triplo della velocità e tutto è morto o sta per morire, che la linfa vitale che ha animato i pomeriggi e le sere, lì, lungo quello stradone che si butta nel buio dell’acqua marina, si è esaurita.
Guardati allo specchio, vuole dirmi, non sei quella che ha lasciato questi lidi, noi siamo andati avanti senza di te perché di te non avevamo bisogno, tu hai scelto di andare altrove, al freddo per una migliore conservazione, ci hai abbandonati al nostro destino. Sembra quasi che dal mare sia emersa una voglia di rivalsa sconfitta, che risalendo lungo il viale come un mostro invisibile sta inghiottendo i luoghi della mia spensieratezza, rigurgitando poi muri tinti di giallino o rosa pallido, marciapiedi spogli, panchine arrugginite dal sale.
Forse il senso unico imposto dal comune ha fatto la storia. Il nostro tempo giovanile era scandito dai passaggi in motorino, rigorosamente in due e senza casco e con inversione a U quando ci si avvicinava troppo al mare e le nostre pance scoperte non erano in grado di sopportare il freddo polare.
Se passavi da solo in motorino stavi sicuramente andando da qualche parte e non saresti ripassato. In due, invece, stavi mettendo in atto la pratica di corteggiamento usuale. Lungo il viale erano sparse, a intervalli più o meno regolari, le comitive di amici, spesso fisse e con strettissima selezione all’ingresso. C’erano quelli della cabina telefonica, quelli della panchina, quelli della Luigi Capuana (la scuola media sul viale). Io sono stata nelle zone basse all’inizio, verso la fine dell’area praticabile. Poi sono passata, orgogliosamente fondandola, a “quelli della yogurteria”. Il motivo è semplice: fino a quando la yogurteria non ha aperto e piazzato due ampie panchine di legno sul marciapiede del viale, non era possibile sedersi, quindi la zona era terra di nessuno.
Noi fummo i primi a scegliere quel posto, nella zona alta, tra quelli della Capuana e quelli della cabina, questi ultimi tra le comitive più antiche e meglio frequentate di tutto il paese. Inoltre, la cabina si trovava esattamente a metà del viale, quindi era strategicamente equidistante da tutte le altre comitive. C’erano poi, come in tutte le guerre, i mercenari, che non avevano una comitiva fissa ma saltellavano di panchina in muretto ed erano amici di tutti (e di nessuno).
La tattica era la stessa per uomini e donne: si andava e tornava, su e giù, avanti e indietro lungo il viale, dalla zona Capuana alla zona detta “dei pinguini”. Quando si passava davanti alla comitiva del tipo che piaceva alla guidatrice, chi stava dietro scrutava in quella direzione e riportava poi il responso: ha guardato oppure non ha guardato. Quando si passava davanti alla comitiva del tipo che piaceva a quella che stava dietro, i ruoli si invertivano. Non c’era altro.
Per cui il viale, la nostra culla, ci lasciava dondolare da una parte all’altra, a coppie dello stesso sesso e noi cercavamo di flirtare non flirtando. In realtà, dato che il meccanismo era diffusamente conosciuto, era semplice capire se qualcuno era interessato te: se passava più volte davanti alla tua comitiva e non ti guardava, avevi una possibilità. Se passava con un amico che si girava a guardare, avevi fatto colpo. Però non potevi mostrare di aver capito di essere preda, per cui un amico della comitiva guardava al posto tuo. A raccontarlo adesso lo trovo così tenero e genuino, nel suo tentativo di essere contorto, questo slancio verso l’amore. Chissà quanti bambini sono nati e quante famiglie si sono formate per aiutare un amico o un’amica a flirtare.
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