Non sono qui per dire che mi pento di quello che ho fatto, né per dimostrare, attraverso una lunga disamina dei fatti, che le mie azioni sono state una naturale reazione alle condizioni della mia vita. Avrei potuto fare scelte più ragionate, avrei potuto essere migliore, lasciare più spazio a me stesso, alle mie inclinazioni naturali, i miei desideri, se non mi fossi infranto nelle cose della vita. Ho preferito non raccogliere i pezzi, lasciarli sparsi, donare un pezzo diverso di me a ogni passante che si è trovato a costeggiare la zona del mio schianto. Miriam, Filippo, Giorgio, il mio capo alla casa editrice, quella pazza schizofrenica che mi ha accoltellato, sì, metto anche lei nel gruppo e lo ammetto: avrei potuto gestirla meglio, ambire a più alte soddisfazioni, non inseguire solo i risultati. Farcela era la cosa più importante per me, ottenere un posto sul podio delle vendite ogni anno, dimostrare, senza lasciare spazio al minimo dubbio, di essere intelligente.
Non sono bravo a scrivere, o almeno mi sono sempre rappresentato così, ma riconoscere chi lo è, questa sì è la mia specialità. Un talento per i talenti.
La mia professoressa di italiano delle medie mi disse che avrei dovuto fare lo scrittore perché ero bravissimo a raccontare le bugie. Le dissi che ero bravissimo anche in qualcos’altro: le sapevo riconoscere. Discernere tra cazzate e autenticità era il mio dono.
Quindi sono diventato talent scout.
Poi però la gente ha smesso di cercare esperienze intellettuali nei libri, e mi riferisco a chi li pubblica, principalmente.
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